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Esattamente sei anni fa, l’economista Jeremy Rifkin e il sociologo Vincenzo Moretti si interrogavano su alcune delle prospettive in termini di sostenibilità economica, sociale, ambientale e istituzionale del nostro Paese e del mondo. A distanza di qualche anno, dall’intervista emergono diverse intuizioni dalle previsioni del futurologo statunitense.
Moretti. Se il sonno della ragione non continuasse a generare mostri, il disastro provocato dalla British Petroleum avrebbe dovuto determinare una formidabile spinta verso la necessità di lasciarsi al più presto alle spalle il modello di sviluppo basato sui combustibili fossili. È davvero così? Qual è la sua valutazione dell’evento? In che misura la gravità di ciò che è accaduto, e le sue conseguenze, possono ancora accelerare i processi di cambiamento?
Rifkin. La catastrofe del Golfo del Messico ha ormai raggiunto una proporzione pari a sette od otto volte il disastro provocato della Exxon Valdez. Allo stato attuale (fine giugno 2010, ndr) parliamo di un disastro Exxon Valdez a settimana. Ciò dimostra quanto disperati e dipendenti siamo diventati, al termine dell’era dei carburanti fossili: pur essendo consapevoli dei danni che possono provocare sul lungo termine agli ecosistemi, siamo disposti a lanciarci in rischiosissime imprese di trivellazione off-shore perché dipendiamo da quelle risorse.
In realtà, il disastro nel Golfo è il terzo episodio in 20 mesi a dirci che l’era dei carburanti fossili è finita. Il primo campanello d’allarme è stato ovviamente quello del luglio 2008, quando il prezzo del petrolio è arrivato a 147 dollari al barile, e abbiamo raggiunto il «picco della globalizzazione», lo scenario più estremo. Come tutti ricordano, con il prezzo del petrolio a quei livelli, i prezzi sono schizzati lungo l’intera catena di fornitura e il potere d’acquisto è crollato. È aumentato tutto, perché tutto deriva dai carburanti fossili: infrastrutture, prodotti farmaceutici, cibo, abbigliamento, gas e così via.
Moretti. Si è innescata una vera e propria reazione a catena.
Rifkin. Esatto. Tant’è che nel luglio 2008 l’intero motore economico della seconda rivoluzione industriale si è fermato. Il vero terremoto è stato quello. Il collasso del mercato finanziario, 60 giorni dopo, era una scossa di assestamento.
È un meccanismo che deriva dal «picco di petrolio pro capite» che toccammo all’apice dell’era dell’auto. Se all’epoca, era il 1979, avessimo distribuito tutte le risorse energetiche disponibili a tutta la popolazione esistente (assegnando quindi a tutti la massima quantità possibile di petrolio pro-capite), avremmo dovuto constatare che la nostra capacità di reperire ulteriori risorse petrolifere non stava al passo con il nostro tasso di crescita demografica. E se questa distribuzione delle risorse avvenisse oggi, con la popolazione mondiale ai livelli attuali, di petrolio pro-capite ce ne sarebbe ancora meno. Nel frattempo sono arrivate la Cina e l’India, lanciate nella loro corsa per traghettare verso la seconda rivoluzione industriale la propria gente, sarebbe a dire un terzo della popolazione mondiale, al ritmo incalzante di una crescita media annua intorno al 10 per cento.
Se questo è il quadro, a me sembra evidente che nonostante i nostri sforzi per tentare di far ripartire l’economia arriverà il momento in cui la pressione della domanda sarà di nuovo troppo forte sull’offerta: i prezzi aumenteranno, toccheremo di nuovo la soglia massima dei 147 dollari al barile, oltre la quale il sistema non regge. È una situazione davvero pericolosa, che renderà sempre più evidente la necessità del cambiamento, a patto naturalmente di avere la volontà di prenderne atto.
Il secondo evento che annuncia la fine dell’era dei carburanti fossili si è avuto a Copenaghen, quando i leader mondiali si sono riuniti per decidere come pagare il conto entropico di oltre 200 anni di consumo energetico e di anidride carbonica, un conto che ormai ha un impatto reale e immediato sull’agricoltura e sulle infrastrutture. Come sappiamo, i leader mondiali non sono riusciti a trovare un accordo. Poi è arrivato il disastro del Golfo del Messico.
Ora, guardando a questi eventi nel loro insieme, qualunque persona dotata di un minimo di buonsenso dovrebbe arguire che i carburanti fossili sono una risorsa matura che volge al tramonto. I prezzi del carbone, del petrolio e del gas continueranno ad aumentare. Le tecnologie del XX secolo, sviluppate in funzione di queste fonti energetiche, sono a loro volta in via di esaurimento. Le infrastrutture sviluppate a partire dai carburanti fossili e interamente basate sul carbonio – i materiali di costruzione, il nostro intero patrimonio edilizio – stanno invecchiando e sono al collasso. Ci ritroviamo, in pratica, con una seconda rivoluzione industriale tenuta artificialmente in vita.
In questo quadro, il disastro nel Golfo del Messico dovrebbe rappresentare un monito, dovrebbe farci capire che abbiamo 25 anni di tempo per operare una rapida transizione da una seconda rivoluzione industriale, tenuta in vita artificialmente, a una terza rivoluzione industriale incentrata su una nuova economia post-carbonio e sostenibile, capace di creare milioni di posti di lavoro.
A me sembra evidente che nonostante i nostri sforzi per tentare di far ripartire l’economia arriverà il momento in cui la pressione della domanda sarà di nuovo troppo forte sull’offerta: i prezzi aumenteranno, toccheremo di nuovo la soglia massima dei 147 dollari al barile, oltre la quale il sistema non regge. È una situazione davvero pericolosa, che renderà sempre più evidente la necessità del cambiamento, a patto naturalmente di avere la volontà di prenderne atto.
Moretti. A che punto siamo concretamente con questa terza rivoluzione industriale?
Rifkin. Il concetto di terza rivoluzione industriale è stato formalmente assunto dal Parlamento europeo nel 2007, quando l’allora presidente Pöttering l’ha definita una strategia di lungo termine per l’Unione Europea. Circa un anno e mezzo fa, abbiamo fondato la «Third Industrial Revolution Global CEO Business Roundtable», una coalizione globale composta da aziende che operano nel settore delle energie rinnovabili, nel settore edilizio, in quello immobiliare, delle tecnologie delle comunicazioni, dei servizi logistici, dei trasporti, delle forniture energetiche. Obiettivo della coalizione è elaborare una serie di master plan per le varie città e regioni, affinché queste possano iniziare a dotarsi dell’infrastruttura di cui la terza rivoluzione industriale necessita. Altrimenti continueremo tutti a sfornare solo una montagna di progetti pilota, e la Terra continuerà a surriscaldarsi.
Moretti. Fino a che non sarà troppo tardi.
Rifkin. Proprio così. Alla «Third Industrial Revolution Global CEO Business Roundtable» partecipano molti grandi gruppi, come Ibm, Cisco, Schneider, nonché aziende energetiche, imprese fornitrici di servizi logistici, l’International Post, l’associazione di categoria dei centri commerciali e tanti altri ancora. abbiamo appena presentato il master plan per San Antonio e abbiamo anche completato il piano per Monaco, nonché quello per Roma.
Moretti. Dunque anche Roma è pronta a partire?
Rifkin. Decisamente sì, nel senso che il master plan è stato completato. Ora dovranno attuarlo. Siamo ancora ai primi passi, ma gli strumenti tecnologici ci sono, lo schema dei master plan funziona, e si può creare una quantità impressionante di posti di lavoro. Un aspetto importante del nostro lavoro è che noi proponiamo un vero e proprio piano di sviluppo economico, non un piano sul clima o sull’energia. Resta aperta la questione relativa a quanto in fretta riusciremo a fare tutto ciò, e se faremo in tempo, ma ci stiamo provando davvero.
Moretti. Il nesso tra sviluppo sostenibile, crescita economica e occupazione delinea uno scenario di grande interesse.
Rifkin. Noi poniamo l’accento sugli investimenti, non sulla spesa pubblica. La critica che ci viene avanzata è: come realizzare un’infrastruttura simile in tempi di rigore, in una fase in cui il deficit, il debito e la recessione economica hanno toccato livelli inediti dagli anni Trenta a oggi? La risposta è semplice. Ogni regione, ogni città, genera il proprio prodotto interno lordo e ogni anno una determinata percentuale di questo Pil generato localmente viene reinvestita. Strade, ponti, case, reti di distribuzione energetica, infrastrutture logistiche: non importa se le cose vanno bene o vanno male, una parte del Pil viene comunque ridestinata alle opere di miglioria. Prendiamo il caso di Roma: abbiamo messo insieme un team di sviluppatori che può contare sulle migliori professionalità a livello mondiale che ha stimato di cosa avrà bisogno la città per i prossimi vent’anni.
Moretti. Dopo tante critiche alla cultura della programmazione, il fallimento dei piani triennali e quinquennali, voi proponete una specie di piano ventennale?
Rifkin. Proprio così. Dico di più: partiamo con un piano ventennale, e poi guardiamo ai trent’anni successivi. I prossimi vent’anni saranno quelli determinanti per la terza rivoluzione industriale a zero emissioni di carbonio.
Roma attualmente reinveste circa 25 miliardi di euro all’anno, sarebbe a dire un quinto del suo Pil. La media di investimenti necessari da noi prevista per i prossimi vent’anni è di circa 500 milioni di euro annui, 10 miliardi in 20 anni. Stando ai nostri calcoli, se Roma si limitasse a dedicare agli interventi da noi previsti l’1,5 per cento degli investimenti infrastrutturali che effettuerebbe in ogni caso, riuscirebbe a raggiungere gli obiettivi prefissati. Quindi complessivamente a Roma, per farcela, basterebbe spendere circa lo 0,3 per cento del proprio Pil. E tutto questo perché si prevede la creazione di partenariati pubblico-privato. Questo discorso vale naturalmente per tutte le città e le regioni finora prese in esame.
Ribadisco che si tratta di soldi che le amministrazioni dovrebbero comunque spendere per le vecchie infrastrutture: le fonti energetiche, le infrastrutture, gli edifici, i sistemi di stoccaggio, e non possiamo lasciare che cada tutto in pezzi, siamo costretti a mantenerlo artificialmente in vita. Basterebbe dedicare al massimo il 3 per cento degli investimenti ai nuovi interventi, continuando a spendere il rimanente 97 per cento per il mantenimento delle vecchie infrastrutture ormai in malora, e ce la potremmo ancora fare.
Noi possiamo l’accento sugli investimenti, non sulla spesa pubblica. La critica che ci viene avanzata è: come realizzare un’infrastruttura simile in tempi di rigore, in una fase in cui il deficit, il debito e la recessione economica hanno toccato livelli inediti dagli anni Trenta a oggi?
Moretti. Sembra facile. In realtà occorre un cambiamento di cultura e di approccio da parte dei diversi soggetti coinvolti, politica e istituzioni, imprese, sindacati, cooperative e terzo settore.
Rifkin. I soggetti e le aziende presenti sul territorio devono capire che si tratta di un’enorme opportunità, che si tratta di reinventare l’economia esattamente come avvenne durante la prima rivoluzione industriale, quando fu realizzata la rete ferroviaria e di trasporto e si costruirono i grandi centri urbani. Oggi, con la terza rivoluzione industriale, dovremo riconfigurare ogni singolo edificio esistente in Italia, per trasformarlo in centrale energetica. Ogni singolo fabbricato, dagli uffici agli impianti industriali, alle case, dovrà produrre almeno parte dell’energia che consuma, mentre gli immobili di nuova costruzione dovranno essere a bilancio energetico positivo. Significa creare milioni di posti di lavoro. In Italia c’è un certo fermento sotto questo profilo.
Moretti. Lo scenario che emerge dai suoi ragionamenti sembra tutt’altro che futuristico, per molti aspetti a portata di mano.
Rifkin. Certamente. In Germania, sono stati già avviati gli interventi: stanno installando impianti per le rinnovabili in tutto il paese, scelta che ha permesso loro di creare 220 mila posti di lavoro in pochi anni, trasformando il proprio intero patrimonio edilizio in centrali energetiche, realizzando depositi di idrogeno in tutto il paese, una rete di distribuzione intelligente. Questo è ciò che sta facendo la Germania, e lo sta facendo ora. Ma potrei citare la Spagna o gli stessi paesi scandinavi. Perché non l’Italia?
Moretti. Verrebbe da dire perché l’attuale governo ha scelto ancora una volta la via della centralizzazione, piuttosto che la via del sostenibile, e l’enorme quantità di normative e vincoli previsti dall’ordinamento attuale non favorisce certo la necessaria operatività.
Rifkin. A mio avviso il terreno dello scontro presenta caratteristiche diverse da quelle della fase precedente, sono convinto che sia di natura generazionale. Persino in Cina, dove è difficile immaginare che un regime centralizzato e piramidale, che non vuole neanche Google, figuriamoci l’energia distribuita, dia vita a una terza rivoluzione industriale: saranno le giovani generazioni a chiedere il cambiamento, a pretendere di poter condividere le proprie informazioni e la propria energia. I giovani ritengono che lo scontro sia tra il modello patriarcale, centralizzato e piramidale da una parte, e il modello distribuito, dell’open source e delle creative commons dall’altra.
In attesa che questo cambiamento generazionale si compia, l’esperienza mi dice che oggi la volontà di una determinata amministrazione cittadina o regionale di sviluppare un master plan con noi dipende esclusivamente dall’approccio dei singoli amministratori, dal loro pensare in termini distribuiti e collaborativi, o piuttosto centralizzati e patriarcali.
Moretti. Il punto interessante riguarda il diffondersi di una sensibilità trasversale intorno a questo tema della terza rivoluzione industriale.
Rifkin. Proprio così. La posta in gioco è in ogni caso la democratizzazione dell’energia, nel senso di power to the people. La cosa interessante è che si tratta di un ibrido tra capitalismo e socialismo: da una parte è un modello di mercato, in cui tutti diventano imprenditori, nel senso che ognuno produce la propria energia, dall’altra è un modello collaborativo, basato sulla condivisione tra pari dell’energia prodotta da ciascuna città, paese, continente. Non a caso al nostro gruppo globale di 100 amministratori delegati partecipano tanto le principali aziende capitalistiche del mondo quanto i principali consorzi cooperativi.
Moretti. Ci dice qualcosa di più su questa proposta delle cooperative energetiche?
Rifkin. Bisogna lavorare con le imprese locali e nazionali, creando un sistema ibrido che offra a tutti gli attori territoriali (piccole e medie imprese, comunità di residenti ecc.) la possibilità di fondare cooperative che riducano i margini di rischio, per poi stringere accordi collaborativi che prevedano la condivisione dell’energia prodotta, attraverso reti distribuite connesse con il resto d’Europa e con il Mediterraneo.
Moretti. Torniamo alla questione lavoro, che in Italia sta assumendo sempre più i caratteri dell’emergenza nazionale. Prima ha parlato della possibilità, con la terza rivoluzione industriale, di creare milioni di posti di lavoro. Possiamo provare a dare maggiore consistenza alla sua affermazione?
Rifkin. La sostanza del discorso è questa: il vecchio sistema di approvvigionamento energetico non è più in grado di produrre effetti moltiplicatori. Una centrale a carbone quanti posti di lavoro può creare? La Germania ha dimostrato che le energie rinnovabili possono creare moltissima occupazione. La chiave di tutto è l’edilizia: è quello l’elefante nella stanza, l’evidenza che nessuno vuole vedere. Abbiamo l’opportunità di riprogettare ogni singolo fabbricato italiano per trasformarlo in una centrale energetica: dal punto di vista del lavoro, il ritorno sull’investimento è immenso. Poi c’è il terzo pilastro, l’installazione di tecnologie per l’immagazzinamento dell’idrogeno all’interno di ogni edificio e lungo le linee di distribuzione. Infine il quarto pilastro, l’adeguamento dell’intera rete elettrica del paese: immaginate quanti posti di lavoro si verrebbero a creare. In buona sostanza, una nuova rivoluzione industriale.
Moretti. La terza rivoluzione industriale italiana.
Rifkin. Esattamente come avvenne per la prima e la seconda. È un obiettivo possibile, realizzabile.
Moretti. Per quanto riguarda l’Italia, a suo avviso il passaggio completo alle fonti di energia rinnovabili appare credibile?
Rifkin. L’Italia deve pensare in termini innovativi, all’altezza del XXI secolo – o diventerà un paese di serie B. L’interrogativo che i governi, gli imprenditori, i sindacati devono porsi è semplice, per quanto di difficile risposta: cosa vogliamo che ne sia della società, del governo, dell’imprenditoria, del sindacato, da qui a vent’anni? Vogliamo ritrovarci al tramonto, con le fonti energetiche, l’industria, le tecnologie e le infrastrutture di una seconda rivoluzione industriale mantenuta in vita artificialmente, senza effetti moltiplicatori e con sempre meno posti di lavoro? O vogliamo l’alba, ovvero le fonti energetiche, l’industria, le tecnologie e le infrastrutture di una terza rivoluzione industriale, capace di creare una società sostenibile che faccia i conti con il cambiamento climatico e generi un’enorme quantità di posti di lavoro per le prossime generazioni?
Se poi la gente decide davvero di non volere il futuro, allora voterà per il passato. Non la voglio fare facile, ma penso davvero che sia ora di smettere di lamentarsi, che occorra darsi da fare a ogni livello. Dobbiamo chiederci quale futuro vogliamo per i nostri figli. Bisogna farne una questione prioritaria, e affrontarla in quanto tale.
L’Italia deve pensare in termini innovativi o diventerà un paese di serie B. L’interrogativo che i governi, gli imprenditori, i sindacati devono porsi è semplice, per quanto di difficile risposta: cosa vogliamo che ne sia della società, del governo, dell’imprenditoria, del sindacato, da qui a vent’anni?
Moretti. Non abbiamo ancora parlato del Mediterraneo. Cosa pensa dell’avvio della fase di studio e progettazione delle strategie da mettere in atto in materia di energie rinnovabili per i paesi del Mediterraneo?
Rifkin. Non sono contrario alla centralizzazione quando si tratta di eolico e di solare, ma non è la terza rivoluzione industriale. Sono misure transitorie, espressione di un approccio teorico da XX secolo. All’epoca, le risorse energetiche elitarie, come il petrolio, il gas e l’uranio, erano tali perché concentrate solo in alcuni luoghi. L’intero modello economico della società derivava da quella centralizzazione dell’energia. La caratteristica delle nuove fonti energetiche – energia solare, eolica, geotermica, marina, rifiuti urbani e agricoli – è che sono fonti distribuite, le trovi almeno in minima parte in ogni singolo metro quadro. Perché concentrarne la produzione solo in alcuni poli centralizzati? Nel caso del Mediterraneo, Se tutti iniziassero a produrre una piccola quantità di energia, e a condividerla attraverso reti dedicate, allora avremmo milioni e milioni di fabbricati in rete che distribuiscono energia in quantità tale da eccedere qualunque forma di produzione centralizzata.
Quando una grande quantità di pesci piccoli si mette a produrre e condividere, la potenza del modello centralizzato diviene niente a confronto della potenza del modello distribuito, che si tratti di energia, di informatica o di tecnologie delle comunicazioni. Credo che l’Italia possa svolgere un ruolo importante per la terza rivoluzione industriale se saprà fare da ponte tra il Mediterraneo, il Medio Oriente, il Nord Africa. Credo si tratti del secondo stadio del processo di integrazione europea, un miliardo di persone. La sfida è riuscire a integrarle nella terza rivoluzione industriale, attraverso una rete che veda tutti produrre la propria energia e distribuirla tra gli Stati, e poi tra le regioni. È per questa strada che può nascere un mercato integrato dal punto di vista dei trasporti, dei servizi logistici, delle comunicazioni.
La terza rivoluzione industriale nasce da lì, ed è un obiettivo che ben si coniuga con la natura reticolare dell’Unione, con il principio di sussidiarietà, perché in Europa le decisioni devono essere prese il più possibile localmente. La terza rivoluzione industriale si fonda non solo sulla produzione locale di energia, ma anche sulla sua distribuzione e condivisione collaborativa attraverso un continente connesso in rete.
Credo che l’Italia possa svolgere un ruolo importante per la terza rivoluzione industriale se saprà fare da ponte tra il Mediterraneo, il Medio Oriente, il Nord Africa.
Moretti. Un altro tema scottante è quello dato dall’interesse della criminalità organizzata per le energie e le tecnologie rinnovabili.
Rifkin. La criminalità organizzata esiste in tutto il mondo, seppure in proporzioni diverse. Va contrastata attraverso un movimento che promuova i principi della trasparenza, dell’empatia e dell’integrità, e non lasci spazio agli elementi criminogeni. La criminalità organizzata svilisce lo spirito democratico, lo mina alla base, perché mina i legami sociali tra le persone. E solitamente tende a rafforzarsi in quelle realtà dove c’è un problema di sfiducia nei confronti dell’apparato statale, nonché degli attori economici e di mercato, riempie quel vuoto.
Da Roma in su l’Italia è una grande centrale, mentre da Roma in giù avete un’enorme quantità di energie rinnovabili. Pensate alle opportunità economiche che si verrebbero a creare stabilendo una forte alleanza tra chi produce le energie della terza rivoluzione industriale e chi produce il manifatturiero. Potreste costruire un’Italia omogenea e superare lo squilibrio tra meridione e settentrione.
La criminalità organizzata esiste in tutto il mondo, seppure in proporzioni diverse. Va contrastata attraverso un movimento che promuova i principi della trasparenza, dell’empatia e dell’integrità, e non lasci spazio agli elementi criminogeni.
Moretti. Il superamento degli squilibri tra Nord e Sud è per l’Italia un altro snodo decisivo.
Rifkin. Dal punto di vista dell’energia, da Bari alla Sicilia avete un’Arabia Saudita. C’è tutto: solare, eolico, marino. La sfida è riuscire a incanalare tutta questa energia con tecnologie al passo con la terza rivoluzione industriale, per poi stabilire una nuova relazione economica con l’Italia settentrionale.
Moretti. Opportunità, quelle che servono per lasciarci alle spalle la questione meridionale e ragionare in termini di risposta meridionale, fondata sull’industria e sul lavoro sostenibile, sulle opportunità di crescita e di futuro.
Rifkin. Sì, opportunità di crescita sostenibile. Dobbiamo saperci ingegnare. Il Rinascimento nacque da questo, ed è così che daremo corso al Rinascimento del XXI secolo, un rinascimento energetico. Sono convinto che la storia sia dalla parte della terza rivoluzione industriale. La domanda è: faremo in tempo? Questo non saprei dirlo. Perché dobbiamo fare i conti con un’economia al collasso, con un regime energetico che ha fatto il suo tempo e con un cambiamento climatico che minaccia il pianeta. Sì, direi proprio che ci aspetta una corsa contro il tempo.
Sono convinto che la storia sia dalla parte della terza rivoluzione industriale. La domanda è: faremo in tempo? Questo non saprei dirlo. Perché dobbiamo fare i conti con un’economia al collasso, con un regime energetico che ha fatto il suo tempo e con un cambiamento climatico che minaccia il pianeta. Sì, direi proprio che ci aspetta una corsa contro il tempo.
L’intervista è un estratto della pubblicazione Sostenete il mondo, voglio crescere, Estratto da Quaderni di Rassegna Sindacale. Lavori Anno XI – 2010 – 3 (luglio-settembre), a cura di Vincenzo Moretti, gentilmente concessa dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
Jeremy Rifkin è presidente della Foundation on Economic Trends ed è autore di numerosi bestseller sull’impatto del cambiamento scientifico e tecnologico sull’economia, il lavoro, la società.
Foto:”Conference: Countdown to Copenhagen Jeremy Rifkin” (CC BY-SA 4.0) by boellstiftung