Cambiamenti climatici e migrazioni: una sfida in agenda per COP22

Thomas Robin
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Gli aggiornamenti da Marrakech

 

I cambiamenti climatici: una panoramica

Marrakech – Nonostante il momento canonicamente considerato come punto di partenza del dialogo sulla degradazione del pianeta sia l’inizio degli anni ’70 − in particolare il Summit di Stoccolma del 1972− l’analisi della letteratura accademica dimostra come già in alcuni testi del XIX secolo i cambiamenti climatici siano stati dibattuti attraverso la teorizzazione dell’effetto serra e il riconoscimento dell’influenza che il diossido di carbonio ha all’interno di tali processi.

 

The global temperature has increased by 0.8°C since 1870, the latest report of the Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) informs us that the last 30 years are certainly the warmest since over 1400 years ; even if the temperature rise is not uniform across regions.

 

È solamente a partire dagli anni ’80 − con la creazione di una vera e propria comunità scientifica sul tema e l’elaborazione dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC), nel 1988 − che i cambiamenti climatici diventano concretamente oggetto di studio da parte del mondo accademico e parte delle agende politiche, consacrando questa materia a livello internazionale.

L’istituzione della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) durante l’Earth Summit di Rio nel 1992 rappresenta l’ufficiale riconoscimento del tema a livello internazionale da parte dell’ONU, in particolare attraverso l’introduzione del principio della comune ma differenziata responsabilità in ambito climatico – ancora oggi oggetto di dibattito – creando una distinzione fra i Paesi industrializzati (cui viene imposto di ridurre le emissioni le emissioni di CO2) e i Paesi in via di sviluppo (cui viene invece accordato supporto finanziario e tecnologico per sviluppare politiche di sostenibilità ambientale). Punto chiave del documento è proprio il riconoscimento della responsabilità legata all’azione dell’uomo come una delle principali cause delle variazioni climatiche: se l’uomo quindi diviene il protagonista dei mutamenti del sistema climatico, allo stesso tempo la grande maggioranza degli esseri umani può essere considerata vittima dei medesimi cambiamenti.

 

Se l’uomo diviene il protagonista dei mutamenti del sistema climatico, allo stesso tempo la grande maggioranza degli esseri umani può essere considerata vittima dei medesimi cambiamenti.

 

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Le migrazioni climatiche: una sfida ancora più grande

La relazione diretta tra i cambiamenti climatici e l’aumento in frequenza e potenza delle calamità naturali è oggi oggetto di largo consenso. Eventi sempre più improvvisi e violenti come inondazioni, tempeste e frane portano le popolazioni interessate a migrare sia in modo temporaneo sia permanente. Questi tipi di manifestazioni producono inoltre fenomeni come siccità, degradazione del terreno, desertificazione, salinizzazione di sorgenti d’acqua dolce, erosione delle coste e innalzamento del livello dei mari: elementi che, necessariamente, mutano e aumentano la mobilità umana. Nonostante questo tipo di migrazione sia sempre esistita, è solo tra gli anni ’80 e ’90 che il dibattito sul tema si è intensificato e le migrazioni climatiche sono state riconosciute come tali, divenendo oggetto a livello politico di campagne di sensibilizzazione indirizzate verso l’opinione pubblica e le istituzioni internazionali. Tutto questo, per accrescere la consapevolezza generale sulle potenti ripercussioni che i cambiamenti climatici possono avere sui flussi migratori. La tecnica utilizzata all’epoca è stata quella delle previsioni allarmanti;  un esempio è contenuto nel primo report IPCC del 1990, in cui veniva specificato come gli effetti dei cambiamenti climatici sarebbero coincisi, a lungo termine, con quelli delle migrazioni umane, costringendo migliaia di persone a spostarsi: «The effects of climate change are likely those of human migration, because thousands of people will be displaced». Altro esempio calzante può essere rintracciato nell’opera di Norman Myers (1993), il quale prevedeva già in quegli anni che la cifra di 150 milioni di rifugiati ambientali sarebbe stata raggiunta entro la fine del XXI secolo.

Questi primi modelli di proiezione, necessariamente non esatti per mancanza di basi empiriche e di consapevolezza sulla varietà delle tematiche connesse, ponevano già alcuni interrogativi su cui ancora oggi si sviluppa il dibattito sulla mobilità climatica, come ad esempio la differente natura, forzata o volontaria, di questo tipo di migrazioni, la durata a breve o lungo termine e l’effettiva esistenza di una correlazione diretta tra le stesse e i cambiamenti climatici. Tuttavia, nonostante la complessità del tema, l’impatto delle variabili ambientali e delle alterazioni del nostro ecosistema devono essere considerate una delle ragioni alla base della mobilità umana, e non possono essere ignorate.

 

L’impatto delle variabili ambientali e delle alterazioni del nostro ecosistema devono essere considerate una delle ragioni alla base della mobilità umana, e non possono essere ignorate.

 

A dimostrazione di quanto detto, basti pensare ai flussi migratori dalla Somalia al Kenya tra il 2012 e il 2013: migrazioni fondate su ripetute siccità e carestie, a loro volta alla base dei massacri del gruppo armato Al Shabad. É possibile ritrovare questo stesso scenario, detto “a doppia causalità”, anche a proposito della crisi siriana: nell’analisi odierna non possiamo non considerare che tra le cause dell’attuale conflitto vi siano anche sei anni di siccità precedenti all’inizio del conflitto armato.

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Da Cancun a Marrakech

Il primo vero cambiamento atteso dagli esperti avviene in occasione della COP 16 a Cancun, nel 2010, all’interno del Cancun Adaptation Framework (paragrafo 14), in cui viene finalmente riconosciuto il tema delle migrazioni climatiche nel testo finale della decisione: è il primo documento in assoluto a collegare cambiamenti climatici e migrazioni, creando così terreno fertile per le future negoziazioni.

 

The Paragraph 14 invited all states parties to enhance action on adaptation under the Framework by undertaking, inter alia, «Measures to enhance understanding, coordination and cooperation with regard to climate change induced displacement, migration and planned relocation, where appropriate at the national, regional and international levels».

 

Durante la COP 18, a Doha, il tema viene ulteriormente sviluppato attraverso l’elaborazione del concetto chiamato “loss and damages”, relativo alle migrazioni climatiche (paragrafo 7 (a)).

 

The Paragraph 7 (a) encouraged « further work to advance the understanding of and expertise on loss and damage, which includes […] enhancing the understanding of […] how impacts of climate change are affecting patterns of migration, displacement and human mobility».

 

Tuttavia è l’anno successivo, durante la COP 19 a Varsavia, che tale meccanismo viene formalizzato. Questo fondamentale passaggio consente, infatti, di elargire finanziamenti a rifusione di perdite e danni associati ai cambiamenti climatici non evitabili attraverso l’adozione di politiche pubbliche.

Giungendo poi alla COP 21 di Parigi (un maggiore approfondimento in questo articolo), le impressioni che sorgono rispetto a tale accordo seguono un doppio binario: il documento compie dei passi in avanti che tuttavia risultano ancora limitati.

In particolare:

  • Vengono riconosciuti specifici diritti umani ai migranti climatici in quanto tali, agevolandone la protezione;
  • La nozione di popolazioni migranti viene equiparata a quella di popolazioni vulnerabili, popolazioni povere e Paesi contraenti particolarmente vulnerabili, definizioni più volte ripetute sia nelle adaptation measures che nelle mitigation measures;
  • L’articolo 11 fa menzione, in particolare, dell’accesso alla finanza climatica per i Paesi in via di sviluppo più vulnerabili ai cambiamenti climatici, indirizzando così tali misure ad alcune piccole isole maggiormente esposte alle migrazioni climatiche.

 

«Parties acknowledge that adaptation action should follow a country-driven, gender-responsive, participatory and fully transparent approach, taking into consideration vulnerable groups, communities and ecosystems, and should be based on and guided by the best available science and, as appropriate, traditional knowledge, knowledge of indigenous peoples and local knowledge systems, with a view to integrating adaptation into relevant socioeconomic and environmental policies and actions, where appropriate». Article 7, paragraph 5 – Paris Agreement

 

Allo stesso tempo numerose questioni rimangono aperte:

  • La mancanza di un impegno formale da parte dei principali Paesi responsabili dei cambiamenti climatici nei confronti di quelli più colpiti, come sottolineato anche da Kumi Naidoo, direttore esecutivo di Greenpeace International, all’indomani della conclusione del meeting: “L’ingiustizia emerge chiaramente da questo testo. I Paesi responsabili del problema hanno promesso aiuti troppo ridotti per le popolazioni in prima linea contro i cambiamenti climatici”.
  • Sulla stessa linea anche le dichiarazioni di Tim Gore, capo delle politiche climatiche e alimentari di Oxfam: “[…] Abbiamo il concetto di perdita e danno, ma non quello di compensazione. Non ci sono sufficienti garanzie rispetto alla continuità dei fondi di adattamento climatico dopo il 2025”.
  • Gli evidentemente insufficienti riferimenti alle migrazioni climatiche nel testo finale, come espresso da Walter Kaelin (The Nansen Initiative): “Tutti i governi hanno riconosciuto la migrazione climatica come una delle più importanti conseguenze dei cambiamenti climatici, non conferendo però un riconoscimento formale all’interno del testo”.

 

L’accordo di Parigi, quindi, rappresenta sicuramente un passo avanti dal punto di vista del riconoscimento dell’esistenza di un nesso tra la mobilità umana e i cambiamenti climatici, ma le risposte date a questo problema rimangono limitate e ben al di sotto delle aspettative. Il citato meccanismo “loss and damage”, infatti, può essere attivato unicamente quando non è possibile intervenire mediante politiche di adattamento, rendendo così le migrazioni un semplice strumento all’interno del gioco rappresentato dalle politiche ambientali e dimenticando, in questo modo, quanto sia violenta una migrazione forzata e il complesso contesto in cui si inserisce, di cui è solo una parte. In realtà possiamo collocare questa dinamica nella classica relazione tra forti e deboli. La situazione, infatti, si presenta paradossale: coloro che dovrebbero compiere lo sforzo maggiore per ridurre il proprio impatto sul clima – ossia i potenti Paesi industrializzati – sono quelli meno colpiti dai cambiamenti climatici.

 

È necessario, quindi, che i Paesi sviluppati riconoscano le proprie responsabilità, e supportino finanziariamente delle concrete strategie di adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo.

 

In questo senso, un primo sviluppo è stato quello della creazione, in occasione del Summit di Cancun nel 2010, del Green Climate Fund: un fondo creato in seno all’ONU, essenziale non solo per veicolare risorse finanziarie verso i Paesi in via di sviluppo ma anche per promuovere investimenti privati a tutela dell’equilibrio climatico. Nonostante i Paesi partecipanti avessero posto come obiettivo la mobilizzazione di 100 miliardi di dollari entro il 2020, durante la successiva COP 21 la scadenza è stata posticipata al 2025, dimostrando ancora una volta la limitata efficacia delle decisioni prese e le pesanti mediazioni imposte.

È quindi necessario che le potenze mondiali decidano di compiere in breve tempo sforzi reali per prendere seriamente in considerazione la sfida delle migrazioni climatiche, includendo nell’agenda politica internazionale sia la creazione di una vera governance globale delle migrazioni, sia una vera politica di finanziamento internazionale per il clima, non solo attraverso l’implementazione degli accordi di Parigi ma soprattutto con un rinnovato coraggio durante le nuove negoziazioni che si stanno ora svolgendo alla COP 22, a Marrakech.

 

Si ringrazia la gentile collaborazione di Vanessa Tullo.

 

Per approfondire

 

About Thomas Robin

Laureato a Parigi in Scienze politiche, corso Relazioni e Cooperazione internazionale, ha ottenuto la Laurea nel 2016 con una tesi di ricerca in Migrazioni climatiche e public policies in Marocco. Dopo alcune esperienze in Francia e Messico nell'ambito della Cooperazione internazionale con ONG locali, oggi lavora per l'OIM Maroc sui temi Mainsteaming migration e Environmental migration.

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