Il Rapporto IEO e il Fondo Monetario Internazionale: luci e ombre sulla crisi finanziaria

Leonardo Conte

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Una scomoda verità – Un documento ufficiale pubblicato da un organo indipendente del Fondo Monetario Internazionale delinea le principali cause del fallimento dell’istituzione nel sorvegliare e monitorare il sistema economico mondiale negli anni che hanno preceduto la crisi finanziaria del 2007-2008.

 

Le premesse: il report dell’Indipendent Evaluation Office (IEO)

“Gli incentivi non erano ben allineati per favorire il candido scambio di idee necessario per una buona sorveglianza. Essi erano piuttosto mirati a far rispettare le visioni prevalenti all’interno del gruppo”. Inoltre, “Molti membri dello staff avvertivano che esprimere pareri fortemente contrari avrebbe potuto rovinare la loro carriera”. Non è la dichiarazione di un pentito, ma un frammento del report dell’Independent Evaluation Office (IEO), l’unità di controllo interna del Fondo Monetario Internazionale (FMI), pubblicato nel 2011. Scopo del documento, che richiama la funzione tipica dello IEO, era quello di valutare la performance dell’istituzione di Washington durante gli anni appena precedenti l’ultima crisi economico-finanziaria, nel periodo 2004-2007. Il report lascia dedurre che la valutazione complessiva dell’Organismo Indipendente sull’operato del Fondo non sia affatto positiva. Al contrario, evidenzia dei problemi strutturali − sia endogeni sia esogeni − che avrebbero contribuito al fallimento di uno dei principali obiettivi del FMI: sorvegliare sulla sostenibilità delle politiche economiche degli stati membri (Articolo IV, statuto FMI). Concretamente, ciò avviene tramite le consultazioni con i paesi membri da un lato e la ricerca sull’andamento dell’economia globale dall’altro: i risultati di questo lavoro sono pubblicati periodicamente nel World Economic Outlook (WEO) e nel Global Financial Stability Report (GFSR).

Per quanto il lavoro del dipartimento di ricerca del Fondo preveda l’uso delle più avanzate tecniche macroeconometriche per prevedere l’andamento dell’economia nel breve-medio termine, i documenti relativi al 2007 non accennavano alle instabilità del sistema che già iniziavano a presentarsi. Nell’aprile dello stesso anno, “Il messaggio del FMI era di continuo ottimismo all’interno di un contesto globale prevalentemente benigno”, come si legge all’interno del report, con “un outlook di breve termine positivo e condizioni del mercato finanziario fondamentalmente solide”. E ancora “Il FMI non ha anticipato la crisi, i suoi tempi o le sue dimensioni, non potendo quindi avvertire i suoi membri in merito ai relativi pericoli”. Un responso decisamente negativo, che solleva questioni interessanti sull’operato di una delle organizzazioni internazionali più influenti del sistema economico contemporaneo.

 

“Gli incentivi non erano ben allineati per favorire il candido scambio di idee necessario per una buona sorveglianza. Essi erano piuttosto mirati a far rispettare le visioni prevalenti all’interno del gruppo” – “Molti membri dello staff avvertivano che esprimere pareri fortemente contrari avrebbe potuto rovinare la loro carriera”

 

Le cause del fallimento

L’analisi dello IEO prova a delineare tre cause principali per spiegare il fallimento dell’operato del Fondo Monetario Internazionale negli anni pre-crisi, individuando innanzitutto una pericolosa mescolanza di fattori di matrice puramente psicologica.

Primo tra questi, il fenomeno del cosiddetto groupthink, o pensiero di gruppo: la tendenza, tra gruppi omogenei e coesi, a considerare le questioni soltanto entro un certo paradigma e non metterne quindi in discussione le premesse di base (Janis, I.L. 1982). Di fatto, per minimizzare i conflitti e raggiungere il consenso, si bypassano l’analisi e la valutazione critica delle idee, sacrificando così l’autonomia di pensiero. Ciò previene il costituirsi di scelte e opinioni diverse o contrapposte, permettendo che i punti di vista rimangano all’interno della comfort zone del pensiero consensuale: una vera e propria patologia funzionale del comportamento collettivo, che può portare a scelte sconsiderate e irrazionali. È attraverso la dinamica sociale che può essere spiegato il comportamento dello staff del FMI, sempre cauto nell’evitare di proporre considerazioni che potessero essere percepite come ingenue o inusuali, nel timore di ricevere giudizi da parte degli altri membri del gruppo. Come da definizione, il fenomeno è tipico degli aggregati altamente omogenei, esattamente come quello dell’équipe del Fondo: un gruppo coeso di macroeconomisti, convinti che la disciplina e l’autoregolazione del mercato sarebbero stati sufficienti per prevenire seri problemi all’interno delle istituzioni finanziarie.

 

Groupthink, o pensiero di gruppo: la tendenza, tra gruppi omogenei e coesi, a considerare le questioni soltanto entro un certo paradigma e non metterne quindi in discussione le premesse di base.

 

In questo contesto esiste un meccanismo che in gergo tecnico prende il nome di confirmation bias: la tendenza delle persone a notare informazioni coerenti con le loro aspettative e ignorare piuttosto quelle che non lo sono (Bazerman & Moore, 2009). Ciò potrebbe spiegare l’attenzione del team verso la prima preoccupazione del FMI, relativa agli squilibri globali e al declino del dollaro (considerati rischi “chiave” per la stabilità del sistema economico mondiale), ignorando tuttavia i segnali evidenti delle “patologie” già in atto. Inoltre, come dichiara apertamente il report dello IEO: “Lo staff del FMI si sentiva a disagio nello sfidare i punti di vista delle autorità delle economie avanzate in merito a questioni monetarie e regolatorie”. In psicologia sociale, la “cattura intellettuale” che avrebbe investito il gruppo di 2500 economisti del Fondo si potrebbe spiegare attraverso le dinamiche intercorrenti tra out-groups e in-groups: infatti, il team del FMI è stato fortemente influenzato dalla reputazione e dall’expertise dei colleghi delle banche centrali di Regno Unito e Stati Uniti in particolare, spesso derivanti dall’accesso facilitato ai dati bancari e dall’approfondita conoscenza dei relativi mercati finanziari.

Queste considerazioni evidenziano alcuni dei punti deboli della struttura del Fondo Monetario Internazionale, e in particolare i suoi impedimenti organizzativi dovuti ad una sorta di “silo behaviour”: lo staff tendeva a non condividere le informazioni o chiedere suggerimenti ad altre unità o dipartimenti. Come espresso nel report: “Questo tipo di assetto rese difficile integrare una sorveglianza di tipo multilaterale con quella bilaterale, nonché legare gli sviluppi macroeconomici con quelli finanziari”. Anche a causa di questo “handicap” di matrice psicologica, è venuto a mancare totalmente il coordinamento della ricerca e delle analisi per la pubblicazione dei documenti cruciali, nonché la comunicazione tra i diversi dipartimenti in merito alla revisione collettiva della pubblicazione di WEO (World Economic Outlook)  e GFSR (Global Financial Stability Report). In tal modo, come potrebbe accadere in una qualsiasi start-up appena nata, cooperazione e collaborazione − fattori che riflettono l’impostazione organizzativa gerarchica e con confini ben definiti del FMI – erano insufficienti.

 

“Silo behaviour”: lo staff tendeva a non condividere le informazioni o chiedere suggerimenti ad altre unità o dipartimenti. Come espresso nel report: “Questo tipo di assetto rese difficile integrare una sorveglianza di tipo multilaterale con quella bilaterale, nonché legare gli sviluppi macroeconomici con quelli finanziari”. Anche a causa di questo “handicap” di matrice psicologica, è venuto a mancare totalmente il coordinamento della ricerca e delle analisi per la pubblicazione dei documenti cruciali.

 

Il secondo problema individuato dall’Organismo di Valutazione è invece di natura intellettuale. È infatti nella scelta degli approcci analitici e nella presenza di importanti knowledge gaps (divari conoscitivi) che risiede una delle fonti del fallimento del FMI nell’individuare i potenziali rischi e le vulnerabilità del sistema economico. In realtà, questi divari sono stati generati da un problema generazionale: la maggior parte degli economisti che lavoravano al FMI ai tempi della crisi si erano formati negli anni Novanta, quando il taglio dato all’insegnamento della disciplina nelle università americane era abbastanza critico nei confronti della teoria keynesiana, dando spazio invece al monetarismo e alla macroeconomia neoclassica[1] (Robert Lucas Jr.(1976), “Econometric Policy Evaluation: A Critique”).

L’emergere di queste teorie ha fatto sì, ad esempio, che le ricerche attuate dagli economisti del Fondo non prevedessero un’analisi del nesso esistente tra settore macroeconomico e finanziario.

Inoltre, tra le righe del report in questione, si legge che alcune di queste lacune sarebbero condivise dalla professione nel suo complesso: lo staff, così come la grandissima maggioranza degli economisti, credeva davvero che “la sofisticatezza dei mercati finanziari avanzati potesse fiorire in modo sicuro con una minima regolamentazione di una larga e crescente porzione del sistema finanziario”, prevenendo così la possibilità di crisi economiche. A questo proposito, il report parla della “mancanza di un framework concettuale adatto ad analizzare questi link all’interno della professione dell’economista nel suo complesso”, atteggiamento che rispecchia l’approccio dell’équipe del Fondo in merito all’importanza secondaria delle questioni finanziarie. Apparentemente, la crisi asiatica non fu sufficiente a richiamare l’attenzione dello staff di Rodrigo Rato[2] − cui era affidata la direzione del FMI in quel periodo − sui link macro-finanziari, tendenza che fino al 2008 è stata ben evidente sia tra gli economisti applicati sia all’interno dell’alveo teorico di riferimento. Il famoso modello DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium), il cavallo di battaglia delle discussioni sulle politiche economiche, prevede la moneta e i mercati degli asset solo nella loro forma più elementare; e nonostante negli anni si siano sviluppati modelli che incorporano anche frizioni di tipo finanziario, siamo ancora lontani dal poterci affidare a una tecnica generale di forecasting macroeconomico che sia abbastanza efficace nel breve-medio termine.

A tal proposito, il premio Nobel Paul Krugman nel 2009 affermò che “La disciplina economica andò fuori rotta poiché gli economisti scambiarono la bellezza, rivestita da matematica di notevole fascino, per verità”. Più recentemente, l’economista Kenneth Saul Rogoff ha notato come la corrente principale della ricerca economica in macroeconomia abbia anteposto la coerenza teorica e l’eleganza allo studio dei dati e all’analisi empirica. Questa dipendenza degli economisti dai modelli come unico strumento valido per analizzare le condizioni economiche, molte delle quali troppo complesse perché siano modellate, può spiegare le defaillances del team del FMI nel periodo considerato. Infatti, non stupisce che negli anni precedenti la crisi finanziaria molti dei dati disponibili − la crescita del credito, la leva finanziaria, il ruolo degli strumenti ad alto rischio, ecc. − siano stati male interpretati o addirittura ignorati.

Last but not least, il terzo è un fattore di tipo politico-istituzionale che rimanda al frammento citato in apertura. In particolare, molti membri della squadra del FMI avvertirono la presenza di forti disincentivi a rivelare ai piani alti le verità emerse dai risultati, e di conseguenza non avrebbero sostenuto visioni contrarie a quelle delle autorità dei singoli paesi, soprattutto di quelli più grandi e influenti all’interno del Fondo. Qualcuno affermò che i dipartimenti fossero “eccessivamente controllati dai paesi membri” cui erano indirizzati i lavori di ricerca: così, le analisi erano destinate a “giustificare” le proposte delle politiche economiche delle autorità dei paesi stessi. All’interno del report si parla anche di pressioni politiche, più o meno implicite, da parte di alcune economie avanzate per modificare i messaggi della mission del FMI, i quali potevano risultare potenzialmente critici nei confronti delle decisioni di politica economica dei Paesi. Per questo il Fondo avrebbe dovuto operare, tra le altre cose, una sorta di autocensura che limitasse alcune considerazioni, nascondendole dietro un tessuto di concetti espressi in modo molto diplomatico.

In aggiunta a questo, l’Istituzione lodò spesso gli Stati Uniti e il Regno Unito per la loro regolamentazione e supervisione “a tocco leggero”, che fino a quel momento avevano permesso una rapida innovazione finanziaria. Il FMI elogiava pubblicamente il sistema finanziario dei due Paesi: il sistema dei derivati, delle cartolarizzazioni, dei mutui sub-prime, dei prestiti predatori, della deregulation. E nel promuovere implicitamente strumenti quali MBS (mortgage-backed securities), CDO (collateralized debt obligations) e CDS (credit default swaps), il Fondo non intercettò gli elementi di una delle crisi più gravi di tutti i tempi, causata proprio dall’utilizzo dissennato degli strumenti più all’avanguardia dell’ingegneria finanziaria contemporanea.

Un altro elemento critico che connota la struttura istituzionale del Fondo Monetario Internazionale è il suo meccanismo di voto interno, determinato dai contributi monetari dei singoli stati membri, che stabiliscono quindi il loro peso all’interno dell’organizzazione tramite il deposito di fondi di capitale. Questo sistema ha fatto sì che gli Stati Uniti, fino ad ora primo paese per capacità, sia il principale portatore d’interesse di una delle Organizzazioni Internazionali più influenti nella scelta della direzione delle politiche economiche a livello globale. È evidente quanto quest’assetto arrivi a compromettere uno dei principi cardine del Diritto Internazionale, ossia l’uguaglianza sovrana degli Stati. A seguito di questa disparità, che fa equivalere a una testa più di un voto, si sviluppano dunque potenziali ritorsioni sul piano economico e geopolitico mondiale.

 

«La disciplina economica andò fuori rotta poiché gli economisti scambiarono la bellezza, rivestita da matematica di notevole fascino, per verità» (Paul Krugman)

 

Le conclusioni: proposte per il futuro

In complesso, quindi, durante il periodo 2004-2007 il Fondo Monetario Internazionale si è in qualche modo sottratto alle proprie funzioni base di sorveglianza sulle politiche economiche e di avvertimento dei rischi potenziali per i paesi membri, mansioni riconducibili al principio di trasparenza dell’Organizzazione.

I pochi rischi individuati furono presentati in termini molto generali, senza una valutazione della scala dei problemi relativi: “Se c’è una cosa che abbiamo chiaramente identificato negli anni passati, questa è l’importanza degli effetti spill-over[3] e spill-back: come una politica monetaria di un paese può avere forti ripercussioni sugli altri”, ha dichiarato la direttrice del Fondo Christine Lagarde in occasione del rinnovo del suo mandato pochi mesi fa. Una considerazione, questa, che ben riassume gli errori compiuti dall’Istituzione negli ultimi anni.

La preziosa analisi dello IEO in merito ai fallimenti del FMI negli anni precedenti alla crisi finanziaria, si conclude con una sezione dedicata alle riforme necessarie per il futuro. Tra queste, l’unità di controllo suggerisce la creazione di un ambiente favorevole allo scambio di idee diverse e contrastanti, nonché il rafforzamento degli incentivi a comunicare con il management della struttura, l’integrazione delle valutazioni macroeconomiche con le questioni del settore finanziario e il superamento delle dinamiche derivanti da comportamenti e mentalità collettive. Non solo: sarà fondamentale migliorare il coordinamento, tra le strutture istituzionali interne ma anche − e soprattutto − nell’attuazione delle politiche economiche dei paesi membri. Inoltre, come si legge nei report successivi, l’unità Indipendente di Valutazione auspica che il Fondo Monetario Internazionale “Continui a incoraggiare un ambiente che rimanga genuinamente aperto a prospettive alternative”.

In conclusione, come è spiegato dal premio Nobel Joseph Stiglitz in “Lessons from a Time of Crisis” – un’intervista multipla pubblicata proprio dal FMI – vige la necessità di implementare i nuovi modelli macroeconomici all’interno della teoria mainstream. Ma è necessario soprattutto un certo grado di coordinamento, onestà e franchezza da parte del management del Fondo, al fine di trasmettere in futuro un messaggio chiaro e coerente ai paesi membri in merito alle prospettive e ai rischi del sistema economico mondiale.

 

Nota: una versione sintetica dello stesso articolo è già stata pubblicata sulla rivista online “Il Caffè Geopolitico”.

 

Letture consigliate

  • Akerlof, G. A. (1870), “The Market for Lemons: Quality Uncertainty and the Market Mechanism” (Il mercato dei limoni: incertezza sulla qualità e i meccanismi di mercato), The Quarterly Journal of Economics, Vol. 84, pp. 488-500;
  • Bazerman, Max H & Moore, Don A. (2009), “Judgment in Managerial Decision-Making”, USA, Editore John Wiley & Sons, Inc;
  • Janis, I. L. (1982), “Groupthink: Psychological Studies of Policy Decisions and Fiascoes”, Boston, Editore Houghton Mifflin Company;
  • Lucas, R. E. Jr. (1976), “Econometric Policy Evaluation: A Critique”, Carnegie-Rochester Conference Series on Public Policy, Volume 1, pp. 19-46;
  • International Monetary Fund – Independent Evaluation Office (IEO), Annual Report 2011;
  • Shiller, Robert James (2000), “Irrational Exuberance”, Princeton University Press, USA.
  • Simon, H. A. (2000), “Scienza economica e comportamento umano”, traduzione di “Models of bounded rationality”, Torino, Edizioni di Comunità;
  • Simon, H. A. (1955), “A Behavioral Model of Rational Choice”, The Quarterly Journal of Economics, Vol. 69, No. 1, pp. 99-118;
  • Stiglitz, J. E. (1975), “The Theory of Screening, Education and the Distribution of Income”, American Economic Review, 65(3), pp. 283-300;
  • Stiglitz, J. E. (1992), “Prices and Queues as Screening Devices in Competitive Markets”, in D. Gale and O. Hart, eds., Economic Analysis of Markets and Games: Essays in Honor of Frank Hahn, Cambridge, MA: MIT Press, pp. 128-166.

 

Video consigliati

  • Lessons from a Time of Crisis”, intervista multipla (Stephen Pickford, Jean Pisani-Ferry, Professor Stiglitz, Tharman Shanmugaratnam), International Monetary Fund Web Site, 2011;
  • Joseph Stiglitz on Macroeconomics in Crisis”, Presentazione del Professor Joseph Stiglitz al CERGE-EI, dal titolo “Restoring Growth and Stability in a World of Crisis and Contagion: Lessons from Economic Theory and History”, 11 Ottobre 2011.

 

Foto: “2015 World Bank Group / International Mo” (CC BY-NC-ND 2.0) by World Bank Photo Collection

 

[1] La nuova macroeconomia neoclassica (NMC) emerge alla fine degli anni settanta del secolo scorso, sottolineando in particolare l’importanza delle azioni degli individui quali agenti razionali, che usando le informazioni a propria disposizione non commettono errori sistematici nel processo di formazione delle loro aspettative (teoria delle aspettative razionali). Ciò implica che essi reagiscano piuttosto rapidamente alle scelte di politica economica, permettendo ai mercati di essere sempre in equilibrio. Secondo l’economista Robert Lucas, uno dei protagonisti del dibattito accademico di quegli anni, le regole di decisione degli operatori all’interno dei modelli keynesiani comunemente utilizzati non potevano essere considerate invariabili rispetto ai cambiamenti delle politiche pubbliche. Ovvero, non ha senso prevedere gli effetti di un cambiamento nella politica economica interamente sulla base delle relazioni osservate nei dati storici aggregati (Lucas’ critique). L’evidenza empirica tuttavia non ha avvalorato le implicazioni della teoria, dando adito a nuove ipotesi sulla razionalità limitata e sulle asimmetrie informative (vedi Simon, Akerlof, Shiller, Stiglitz, nonché la più recente branca della Behavioural economics).

[2] Rodrigo Rato fu il direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale nel periodo considerato dal report dell’Organismo Indipendente di Valutazione (IEO), dal 2004 al 2007. Il suo mandato terminò con il ritiro per ragioni personali a fine ottobre dello stesso anno, appena dopo il Meeting annuale tra FMI e Banca mondiale. In seguito ricoprì altri ruoli di rilievo, per i quali fu indagato con le accuse di bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita e riciclaggio di denaro. Inoltre, è uno dei nomi presenti nella lista dei Panama Papers: avrebbe utilizzato due compagnie offshore per evadere più di 3.6 milioni di euro.

[3] Gli effetti spill-over sono eventi di uno specifico contesto avvenuti a causa di un mutamento di una variabile in un altro contesto, estraneo al primo e apparentemente a esso non correlato. In economia, è il fenomeno per cui una politica (o attività) economica diretta a un determinato settore (area territoriale, popolazione etc.) produce effetti positivi o negativi (tecnicamente chiamati “esternalità”) che vanno anche oltre i confini dello stesso.

About Leonardo Conte

Laureato MSc in Economics and International Politics presso l'Università della Svizzera Italiana di Lugano e l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha conseguito una Laurea in Metodi quantitativi per le Scienze Economiche all’Università Cattolica di Milano e specializzato in Economia e Politiche Internazionali, perfezionando gli studi in Australia e nel Regno Unito e approfondendo temi legati all’Economia dello Sviluppo, Economia Comportamentale, Storia del Pensiero Economico, Geografia e Politica Economica. Sì è formato presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) e ha collaborato con l’ONG AIESEC.

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