L’estenuante braccio di ferro in corso tra la giovane amministrazione Tsipras e i creditori della Troika ha finito con l’essere rimesso nelle mani del popolo sovrano greco che, quasi come in un salto nel passato dei suoi più floridi albori democratici, domenica si ritroverà tra capo e collo l’ennesima gatta da pelare per un Paese già sull’orlo dell’abisso. Il referendum in questione sembrerebbe essere un vero e proprio processo alle intenzioni. Nonostante, infatti, il piano dei creditori cui fa riferimento sia già stato ritirato dagli stessi lo scorso 27 giugno, la chiamata alle urne fa tremare l’Europa per tutta una serie di risultati impliciti che decideranno le sorti dell’Unione a partire da lunedì.
Lo scenario esterno è quello di un sistema che vacilla di fronte alla prospettiva di essere definitivamente messo davanti a una lunga serie di insuccessi e crisi interne che hanno portato la Grecia, tristemente accompagnata da altri Paesi Sud-europei, sul ciglio dell’insolvenza.
Contemporaneamente, sul versante interno, troviamo un governo preoccupato dalla concreta possibilità di non riuscire nemmeno a raggiungere il quorum − in questo caso del 40% − per una questione che è diventata più simbolica che pratica. L’eventuale risultato, positivo o negativo che sia, darà a Tsipras un elemento in più per tornare a sedersi al tavolo negoziale europeo e sperare di muovere più vantaggiosamente il piatto della bilancia.
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Se dovesse vincere il Sì, “Austerity” resterà la parola chiave delle riforme greche a venire, e il governo di Syriza sarà costretto alle dimissioni, con la realistica probabilità di cedere il posto a un governo tecnocratico che apra la strada alle politiche indicate dalla Troika per il Paese. La vittoria del No significherebbe altresì una grande incognita per Syriza, dal momento che il Presidente della Repubblica ellenica Pavlopoulos ha dichiarato la volontà di dimettersi nel caso la Grecia finisse con l’essere costretta ad abbandonare l’Unione Europea; situazione critica, perché la coalizione al governo greco non ha la maggioranza di due terzi necessaria in Parlamento per eleggerne il successore. In realtà, la vittoria del No sarebbe una grande incognita per l’Europa intera, soprattutto perché i Paesi BRICS si sono già premurati di invitare nel loro consesso la Grecia, invito che secondo l’economista statunitense Paul Craig Roberts rappresenterebbe il grimaldello con cui Russia e Cina riuscirebbero a scardinare l’Europa dal suo interno. Già a maggio, infatti, il ministro delle Finanze russo Sergej Storchak aveva solleticato Atene con la proposta di un’alleanza, permettendo al governo greco di usufruire della Nuova Banca di sviluppo dell’organizzazione, che gli fornirebbe tutto l’aiuto che, senza il consenso greco ai cambi strutturali interni, sarebbe impossibile ricevere dalla Troika.
Questo scenario confermerebbe la convinzione che l’Unione abbia da tempo deciso di abbandonare gli ideali che l’avevano fatta nascere, come la logica del soccorso reciproco. D’altro canto, va detto che Draghi ha cercato di tendere più volte una mano di aiuto per evitare che la BCE desse il suo contributo negativo alla vertiginosa caduta dell’economia ellenica, anche se il ministro delle finanze del governo Tsipras lamenta i danni del congelamento della liquidità di emergenza per le banche greche. In questi giorni l’attesa per i risultati di domenica ha bloccato l’Eurozona in un’immobilità surreale: le borse e le banche greche resteranno chiuse fino al 7 luglio, i negoziati UE-Grecia sono stati interrotti a seguito dell’indizione del referendum e il FMI si è già tirato fuori dai giochi quando ha riconosciuto come possibilità la rinegoziazione del debito greco.
Atene ha più volte dichiarato realistica la possibilità di provare a uscire dal circolo vizioso della crisi con politiche economiche espansive, piuttosto che con le finora infruttuose politiche di austerità.
Diversi economisti sono concordi su questa posizione, primo fra tutti il premio Nobel Joseph Stiglitz, il quale aggiunge le sue critiche verso un sistema contorto di prestiti e restituzioni obbligate, il cui punto finale è il seguente: i soldi tanto reclamati indietro dalla Troika saranno gli stessi soldi che saranno nuovamente prestati alla Grecia per far ripartire la sua economia. Il paradosso è proprio che finora gran parte dei prestiti che la Grecia ha ricevuto è andata a coprire solo i debiti con i privati − prime tra tutte le banche francesi e tedesche − costringendola a doversi accollare la stabilità dei conti degli altri Paesi, prima che dei propri. La situazione attuale Europea sembra essere quindi, anche secondo il parere di Giuseppe Di Taranto, un’Unione a due velocità in cui il precetto fondamentale di sovranità condivisa dell’UME viene schiacciato sotto il peso di una netta superiorità tedesca − cui tutto sembra essere concesso − e che ha potuto godere di un vantaggio iniziale considerevole rispetto, soprattutto, alle economie mediterranee. In questo caso, afferma Di Taranto, il vero problema è riuscire a scardinare i presupposti errati su cui è stato basato il sistema, piuttosto che condannare in toto un meccanismo che può dare i frutti sperati − se riassestato − senza alcun bisogno di appoggiare l’idea azzardata di abbandonare l’euro. Di diverso approccio è, invece, l’economista americano Paul Krugman, schieratosi più a favore di Alexis Tsipras nella sua crociata contro l’austerità europea e una moneta unica che, a suo parere, si è rivelata l’ennesima fossa scavata dall’Unione.
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Anche se la posizione di Syriza è molto chiara nell’affermare che non è disponibile ad accettare alcuna politica di austerity, per il ministro delle finanze Varoufakis “Il posto della Grecia nell’Eurozona e nell’Unione Europea non è negoziabile”, manifestando quindi la volontà di appellarsi alla Corte di giustizia dell’UE se quest’ultima dovesse minacciare di espellere il Paese dopo un’eventuale vittoria del No, questa domenica. Ciò sarebbe dimostrazione di una realtà molto diversa da quella propagandata dal resto dei Paesi dell’Unione, soprattutto del Nord.
Il No della Grecia non sarebbe, quindi, volto a ripudiare la sua appartenenza a un’Unione di Stati europei che credevano nel riscatto solidale del Vecchio Continente e nelle proprie radici comuni, ma anzi andrebbe a ribadire quanto quegli ideali siano importanti allora come oggi.
Il fattore negativo più compromettente sarebbe la perdita di credibilità del sistema di moneta unica, considerato irreversibile. L’UME si fonda proprio su un accordo che non prevede esplicitamente retrocessioni: se ciò fosse possibile, la stabilità del sistema non sarebbe assicurata da nulla. Cacciare la Grecia fuori dall’Unione monetaria creerebbe un pericoloso precedente non solo per quegli Stati dell’area PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) che potrebbero essere tentati di emularla, ma anche perché si perderebbe del tutto quella credibilità che salvava l’Euro dall’essere in balia delle speculazioni finanziarie più pericolose. Per evitare i circoli viziosi in cui l’Europa si è ritrovata, molti economisti reclamano per la BCE un nuovo ruolo, con cui possa farsi carico degli impegni a cui ogni Banca Centrale nazionale è obbligata − primo fra tutti la disoccupazione − e non solo fissare il focus principale sul controllo dell’inflazione. I severi vincoli imposti ai sistemi dell’UME e della BCE, come il patto di stabilità e l’inibizione al ricorso di svalutazioni competitive, altro non sono che i cappi al collo delle economie europee che stanno collassando, portando con sé anche quelle considerate più virtuose, ma a cui sono legate a nodo stretto.
Quale che sia la risposta che verrà fuori dalle urne greche nella giornata di domenica, ciò che avrà poderosa risonanza sarà soprattutto la rivendicazione della propria voce come voce del popolo europeo: un popolo, forse, troppe volte messo da parte, in un sistema che ha finito con l’accrescere esponenzialmente negli anni la propria dimensione verticale, piuttosto che seguire lo sviluppo orizzontale che era stato sognato dai fondatori dell’Unione.